“Ché a nulla vale incontrare qualcuno o qualcosa se nessun lampo si produce nella mente.”

Salgariana

                                                                                        


             
                                                        Il terzo giorno al calar del sole,
                                   mentre un formidabile uragano squarciava l'orizzonte,
                                                 entravo ventre a terra nel mio castello.
                                                                    
                                                                   Bisclavret, pag. 183
     


                                                                                    

   Eh sì, cari lettori, anche Bisclavret deve qualcosa a Emilio Salgari.  A quell’ometto alto un metro e cinquanta, il viso accarezzato da folti  baffoni, che passò la vita a fantasticare avventure dietro una scrivania sfogliando resoconti di viaggio, atlanti e mappe geografiche. Stakanovista della penna, non certo per scelta, ma per necessità: sfruttato oltre ogni accettabile limite dall’ingordigia delle case editrici, perennemente in lotta con la miseria, relegato per molti anni negli angoli bui della letteratura come romanziere di serie B. In effetti, a guardar bene, l’opera del Nostro  è tutt’altro che esente da difetti, contraddizioni e cadute di tono. Colpa  soprattutto della fretta, che lo inseguì per tutta la vita determinando una produzione frenetica e disordinata. Per non parlare dei falsi, presunti o accertati, e degli apocrifi, frutto delle manipolazioni dei figli Omar e Nadir e non solo.
   La mattina del 25 aprile 1911, esattamente cento anni fa, il celebre scrittore d’avventura ripone per l’ultima volta la penna ed esce di casa dopo aver scritto tre lettere: una ai figli, una ai direttori di giornali e l’altra ai suoi editori: A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.” Emilio Salgari si incammina verso le colline torinesi con un rasoio in tasca. Lo ritrovano, qualche ora più tardi, con il ventre e la gola squarciata. Si chiude così, a 49 anni, la tormentata avventura umana dello scrittore che forse più di ogni altro ha dimostrato l'inesauribile capacità della fantasia di plasmare e creare nuovi mondi. Antesignano della letteratura di intrattenimento, fu il Ken Follett dei suoi contemporanei, e anche dopo la sua morte continuò a essere amato da intere generazioni di lettori, giovani e meno giovani.

   Per ricordare Salgari proponiamo tre brani tratti da opere diverse, due delle quali sono pressoché sconosciute al grande pubblico.

   La prima ha come titolo La Bohéme Italiana, ed è un romanzo autobiografico pubblicato nel 1909, nel quale vengono rievocati  anni scapigliati della gioventù. Permeato di un umorismo lieve ma  gustoso, riporta alla luce un modo idealmente bohémien in cui  l’attività artistica  non è ancora intaccata dalle logiche del mercato.


"L’inverno, molto crudo, nonostante le belle giornate di novembre, aveva posto fine alle nostre scorrerie, costringendoci a chiuderci in Topaia.
Addio passeggiate per la campagna; addio marce notturne, addio scoponi e tressette.
Il nebbione che ogni sera calava freddo come se soffiasse dai ghiacciai delle Alpi, ci ricacciava inesorabilmente nel nostro studiolo. C’era stato bensì qualche tentativo di marce notturne verso Torino; ma eravamo tornati, più che in fretta, accanto alla nostra stufa, bianchi per la brina.
Perfino il letterato aveva rinunciato alle sue scorrerie lungo le rive della Ceronda e alle sue disgraziate partite di pesca.
L’inverno non era fatto per le nostre mani, costrette a maneggiare penne e pennelli.
Fu dunque deciso di passare le serate in Topaia, accanto alla stufa, e perché questa non corresse il pericolo di spegnersi, in seduta nominammo Alfonso gran fornellaio.
L’ex-segretario del moro Wandohobb, oltre essere un dormiglione di prima forza, era anche il più freddoloso, quindi potevamo contare con piena sicurezza sull’esercizio della sua nuova carica.
Devo anzi dirvi che la prese così a cuore che certi giorni ci arrostiva come fossimo biscotti. Una volta alimentò  la sua amica – la chiamava così – in tal modo, che ci pareva di essere diventati costolette. Il termometro, quel giorno, salì a 39 gradi!...Una temperatura da Senegal, aveva detto il nostro letterato.
Da ciò liti continue fra l’ex-segretario del moro e l’artista barbuto, il quale invece non poteva tollerare il caldo, e minacce di spalancare le finestre, per farci gelare vivi o farci prendere una polmonite fulminante.
Un giorno vennero perfino alle armi; fortunatamente il pistolone marocchino del freddoloso era di legno e il coltello romano dell’artista barbuto era di cartone argentato. Il sangue nondimeno corse egualmente a torrenti…versato da due miserabili bottiglie, pagate dai rissanti.
Dunque la sera ci radunavamo in Topaia, stringendoci attorno alla stufa. Si tracannava qualche bicchierotto, ed arrostivamo castagne a miriagrammi, convertendo il nostro studio in un porcile.
Qualche sera si lavorava, ma per lo più ci raccontavamo storie dell’altro mondo, che ci tenevano di buon umore.
Qualche altra invece organizzavamo dei concerti, roba da cani, ve l’assicuro, quantunque l’usignuolo della Topaia, il miniatore, avesse una buona voce da baritono, da basso, da tenore ed anche da contralto e possedesse un repertorio inesauribile.
Finché cantava l’usignuolo o facevamo girare il grafofono – ne avevamo uno con  dodici pezzi – tutto andava bene. Quando però s’improvvisavano dei cori, veniva fuori della roba da chiodi. Flok e Febo, i due cani della villa, ululavano spaventosamente e ci mostravano i denti.
Qualche altra volta venivano delle parenti del castellano e degli amici. Ma dopo pochi minuti scappavano via turandosi gli orecchi e giurando di non più tornare.
In quegli sconcerti – si potevano chiamare così – si adoperavano strumenti di ogni genere. Coperchi da pentole, molla da stufa, vassoi, bicchieri, bottiglie e cocci messi in un sacco.
L’artista barbuto era famoso per fare la ferrovia."



   La seconda è La città del Re Lebbroso, romanzo pubblicato nel 1904, che pur non esente da alcune imperfezioni tipicamente salgariane risulta eccezionalmente ben strutturato, molto visivo, con un andamento quasi cinematografico e descrizioni eleganti in cui si mescolano in maniera sensuale odori e colori. Ambientato nel Siam, l'odierna Thailandia, ha per eroe protagonista un avventuroso medico italiano, il dottor Roberto Galeno, insieme ai suoi amici, il ministro siamese Lakon-Tay e sua figlia Len-Pra.



"Si alzò, voltando le spalle alla lampada per nascondere la profonda emozione che gli alterava il viso, e si diresse verso un angolo della stanza, dove stava un gran bacino d’argento pieno d’acqua, con dentro un altro bacino di rame sottilissimo, già quasi tutto sommerso.
Era un orologio ad acqua, usato anche oggi dai siamesi. Nel secondo bacino, più piccolo del primo e leggerissimo, vi è un buco quasi invisibile che permette all’acqua di entrare poco a poco finché lo fa colare a picco.
 “Un’altra ora è passata,” disse, mentre il bacino s’immergeva.
In lontananza, i gong del palazzo reale echeggiavano rumorosamente, invitando gli abitanti a spegnere i lumi e a coricarsi.
“E’ tardi,” disse Lakon-Tay con voce ferma. “Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va’ a coricarti, mia dolce Len.”
S’accostò alla fanciulla che lo guardava con profonda mestizia, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.
“Va’, fanciulla,” le disse. “Avrò ancora da fare per un po’ prima di coricarmi.”
Mentre Len-Pra si ritirava nella sua stanza, Lakon-Tay uscì sulla veranda, aspirando avidamente l’aria fresca della notte, carica di profumi deliziosi.
Il Menam, illuminato dalla luna salita ormai in cielo, svolgeva la sua immensa curva, scintillante come se le sue acque fossero d’argento, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando dolcemente, in un incessante scricchiolio di zattere e barche che si alzavano per la marea montante.
I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri morivano sulla superficie dell’immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi suoni di un tro.
La città si addormentava a poco a poco, mentre la luna saliva sempre fra i miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati delle pagode e le punte ardite delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi delle phra-chedi e tremolare le immense foglie dei cocchi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.
Lakon-Tay, appoggiato alla ricca balaustrata della veranda, laccata e dorata, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzarsi nubi nerissime. Guardava verso la necropoli.
“Domani anche il mio corpo sarà là,” disse. “No, Lakon-Tay non deve sopravvivere alla sua disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i S’hen-mheng! Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nell’altra vita. Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla servitù che l’attende.
Un grido che echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.
“L’uccello della morte si è posato sulla mia phe,” disse con un triste sorriso. “Forse l’anima di mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.”
Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto."



    Infine, non poteva mancare un omaggio al ciclo dei Pirati della Malesia, che ha fatto sognare intere generazioni di lettori. Il terzo brano è l’incipit de Le Tigri di Mompracem,  romanzo d’appendice pubblicato sul quotidiano veronese La Nuova Arena negli anni 1883-84.  Vi compaiono per la prima volta i personaggi di Sandokan e Yanez,  la straordinaria coppia di pirati  inventata da Salgari , nella quale una lettura attenta può anche trovare un’interessante variazione sul tema del “doppio”. 




"La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Borneo.
Nel cielo, spinte da un vento fortissimo, correvano mescolandosi confusamente nere masse di vapori, che di quando in quando lasciavano cadere sulle cupe foreste dell’isola furiosi acquazzoni; sul mare s’urtavano disordinatamente e s’infrangevano furiosamente enormi ondate, confondendo i loro muggiti con gli scoppi ora brevi e secchi e ora interminabili delle folgori.
Né dalle capanne allineate in fondo alla baia dell’isola, né sulle fortificazioni che le difendevano, né sulle numerose navi ancorate al di là delle scogliere si scorgeva alcun lume; chi, però, venendo da oriente, avesse guardato in alto, avrebbe scorto sulla cime di un’altissima rupe tagliata a picco sul mare due punti luminosi, due finestre illuminate.
Chi mai vegliava a quell’ora nell’isola dei sanguinari pirati?
In un labirinto di trincee sfondate, di terrapieni cadenti, di stecconati divelti, di gabbioni sventrati, presso i quali si scorgevano ancora armi infrante, si innalzava una vasta e solida capanna adorna di una grande bandiera rossa, che aveva al centro una testa di tigre.
Una stanza di quell’abitazione era illuminata; le pareti erano coperte di pesanti tessuti rossi, di velluti e di broccati di gran pregio, ma qua e là sgualciti, strappati e macchiati, e il pavimento scompariva sotto tappeti di Persia, sfolgoranti d’oro, ma anch’essi laceri e imbrattati.
In un angolo c’era un divano turco con le frange qua e là strappate; in un altro un armonium  di ebano con la tastiera sfregiata e intorno, in una confusione indescrivibile, erano sparsi tappeti arrotolati, splendide vesti, quadri, lampade rovesciate, bottiglie, bicchieri interi o infranti e poi carabine indiane arabescate, tromboni di Spagna, sciabole, scimitarre, pugnali, pistole.
In quella stanza così stranamente arredata, un uomo sedeva su una poltrona zoppicante: era di statura alta, slanciata, dalla muscolatura robusta, dai lineamenti energici, fieri, e d’una bellezza strana.
Lunghi capelli gli cadevano sugli omeri: una barba nerissima gli incorniciava il volto leggermente abbronzato.
Aveva la fronte ampia, ombreggiata da due folte sopracciglia, una bocca piccola che mostrava dei denti acuminati come quelli delle fiere e scintillanti come perle, due occhi nerissimi, d’un fulgore che affascinava.
Stava, da alcuni minuti, con lo sguardo fisso sulla lampada, con le mani chiuse nervosamente attorno alla ricca scimitarra che gli pendeva da una larga fascia di seta rossa, stratta alla vita su una casacca di velluto azzurro e oro.
Uno scroscio formidabile, che scosse la grande capanna fino alle fondamenta, lo strappò bruscamente da quella immobilità. Si gettò indietro i lunghi capelli, si assicurò sul capo il turbante adorno di uno splendido diamante, grosso quanto una noce, e si alzò di scatto, gettando all’intorno uno sguardo nel quale si leggeva un non so che di tetro e di minaccioso.
“E’ mezzanotte” mormorò.  “Mezzanotte, e non è ancora tornato!”


Per la bibliografia dell'opera di Emilio Salgari si rimanda  agli studi di Felice Pozzo e Sergio Campailla.

Per chi volesse approfondire sul web: www.emiliosalgari.it


Poste Italiane comunica l’emissione, per il giorno 23 aprile 2011, di un francobollo commemorativo di Emilio Salgari, nel centenario della morte, nel valore di € 0,60.






                                       Emilio Salgari        
           Verona,  21 agosto 1862 - Torino, 25 aprile 1911