“Ché a nulla vale incontrare qualcuno o qualcosa se nessun lampo si produce nella mente.”

Appunti critici



Un viaggiatore nei Medioevi del Tempo

                                                                                               di Nino Lo Conti *

 
   Esistono romanzi che si bevono d’un sol sorso; come una bibita ghiacciata nella calura del meriggio estivo. Sembra di vederlo quasi fisicamente questo lettore, sotto l’ombrellone: la testa tirata un po’ indietro, la bottiglia in alto a perpendicolo, mentre beve a collo, a gargarozzo pieno, d’un fiato solo, senza respirare, senza fermarsi fino all’ultimo goccio!  Ammazza per un attimo la sete, che poi però si ripresenta, subito, moltiplicata, insopportabile. Questo, bevuto così, è il tipico testo che Roland Barthes avrebbe definito di “piacere”: lo puoi leggere velocemente, anche saltando le pagine, perché tanto non perdi niente; quello che interessa è solo il finale, l’explicit, il nome dell’assassino. Esiste, per fortuna, un altro tipo di testo, “godimento”per palati fini, che va brucato parola per parola, sillaba dopo sillaba, centellinato goccia a goccia, degustato con gli occhi semichiusi. Proprio come fa il grande sommelier, che indugia, riparte, ascolta, s’impunta, torna indietro, in un’attesa infinita prima di decidersi a mandare giù il nettare.  E in effetti il sommelier assomiglia un poco al vero lettore, quello che, ancor prima d’iniziare, soppesa il libro, ne sente il profumo d’inchiostro, lo sfoglia, per sentire lo schiocco, ubriacante ed unico, della pagina scartata dalle dita.       
                    
   D’altronde questa dimensione spirituale e relazionale rappresenta la condicio sine qua non per essere ammesso alla corte del cavaliere Aimone da Torrarmata, poterlo eventualmente seguire, in rispettoso silenzio, nella sua ricerca e, con un po’ di fortuna, riuscire anche ad accompagnarlo in uno dei misteriosi viaggi nel tempo. Nessuno, che non possa vantare questa disposizione d’animo, può leggere questo straordinario romanzo, Bisclavret, che  Elena Maffioletti e Vittoria Delsere hanno realizzato con una stupenda complessità, non disgiunta da maestria e grazia, difficilmente riscontrabile in altri autori del nostro  tempo. 
    
   Nel romanzo emergono molti  temi, che potrebbero anche sembrare abbastanza tradizionali, ma in realtà proprio qui si rivela l’apporto personale e creativo delle Autrici, che rinnovano totalmente quelli che altrimenti sarebbero solo topoi fortemente letterari. Ne è esempio classico il VIAGGIO, che però qui diventa originale, infatti, accanto a quello fisico, si affiancano vari blitz e sortite in altre epoche e il cavaliere Aimone, in preda alle sue Visioni, viaggia nel tempo, visitando civiltà diverse,  tutte caratterizzate da Medioevi. 
   
 Ritorna anche il tema del DOPPIO, anch’esso abbastanza tradizionale, ma Delsere e Maffioletti lo affrontano restituendogli positività filosofica, di ascendenza kantiana ed hegeliana. Da sempre il doppio viene percepito come negatività e contraddizione: già Platone contrapponeva all’Iperuranio il Mondo dei mortali che ne era copia imperfetta, ma quasi tutta la letteratura occidentale ha poi sempre enfatizzato il “male” insito nel doppio: un esempio per tutti è il dr. Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson, ma anche tutti i racconti, o film di genere, sulla licantropia e sui vampiri. Raramente il negativo del doppio viene accettato come proiezione positiva (Kant) che rimanda alla sintesi dialettica (Hegel), importante nella crescita ed evoluzione; tranne qualche felice eccezione (per esempio il centauro Chirone in cui convive il cavallo e l’uomo). Ebbene il romanzo di Maffioletti e Delsere teorizza l’armonia del doppio, visto come completamento e unità per una identità superiore; teorizza l’importanza del Doppio  perché dona la possibilità di due punti di vista sulla realtà e sulle cose. Eccellente, fra l’altro, la tecnica narrativa con cui le Autrici si costringono ad una doppia regressione narrativa (straniamento), in quanto devono “indossare” e assumere due sensibilità diverse per poterle 
interpretare. 
   
 Non può passarsi sotto silenzio nemmeno la presenza dei  NOMI ognuno dei quali veicola un proprio apparato simbolico o ironico (nome omen!):  Deliana, come la casta e vergine Diana,  - proveniente da Delo -  dovrebbe praticare la fedeltà, invece abbandona e tradisce Aimone; Tordella fa già venire l’acquolina in bocca prima ancora di sapere a quale incombenza attenda nel castello di Torrarmata; il Bepi, per chi è bergamasco, se lo immagina già pensando al cantante; Tadpino per assonanza pensi al tapino poveraccio e meschino; Romolo figlio della Lupa e via di seguito. Ironia, questa dei nomi, che comunque attraversa l’intera opera, con battute e situazioni esilaranti, come per esempio quella in cui  re Alberico consola, saggiamente, Aimone per l’abbandono di Deliana: “… Conformatevi al vostro nuovo stato, e dimenticate. Le donne sono come sono … si lasciano infilzare dalle parole, e a volte non solo da quelle. Amore e fedeltà non seguono necessariamente  gli stessi comandamenti”.
                     
   Sotto il profilo formale notevole appaiono gli esiti con cui le due Autrici hanno risolto la questione complessa dello stile, infatti la narrazione in prima persona deve obbedire ad un periodare sostanzialmente vicino al parlato; ma il contesto storico, sociale e culturale costringe il protagonista e i vari personaggi a ricorrere, di volta in volta, ad un registro che passa dal colloquiale, familiare e formale, fino al tono cortese, cavalleresco e addirittura aulico; si aggiunga per giunta che spesso il discorso affronta riferimenti filosofici, dotti, scientifici. Appare dunque ancora più meritevole il lavoro delle nostre Delsere-Maffioletti che, nonostante tutta questa complessità, sono riuscite a conservare nel testo  una scorrevolezza esemplare. Anche la sintassi della frase probabilmente è stata impegnativa da ricostruire, in quanto doveva sposare il retroterra culturale specifico medievale cui appartiene il protagonista, ma anche qui i risultati conseguiti raggiungono vette altissime: la disposizione delle parole riproduce la struttura iperbatica latina, spezzando la monotonia della frase italiana e trovando in se stessa il ritmo  “alto-basso” che diventa motore dinamico elegante ed efficace nel supportare il pensiero; conferendole una liricità, tenue ma costante, al di sopra delle righe. Il lessico è vario, particolare, mimetico del linguaggio del tempo; a volte però pesca nell’ambito settoriale e tecnico della religione, letteratura, filosofia, mitologia, cavalleria, o della scienza delle erbe, o ancora dell’araldica.
   
  Infine tutto il romanzo si caratterizza per una fitta  e dotta rete di allusioni e rimandi che coinvolgono non solo il Medioevo, ma vari campi dello scibile umano (filosofia, cavalleria, religione, erboristeria, araldica …). Solo un lettore attentissimo (e di una certa età e cultura) riesce a cogliere questa fittissima e difficile tessitura: si va, in un intrigante e allegro pastiche, dai film (Via col vento, Ritorno al futuro, Kill Bill di Quentin Tarantino, western e arti marziali), ai romanzi, alla poesia provenzale, ai lais di Maria di Francia, ai Cantastorie e menestrelli, ad Andrea Cappellano, ai Clerici vagantes; dai poemi della Chanson de geste e dell’Epica medievale in genere, alla Letteratura spagnola dei Cantari; fino alla fiaba (Cappuccetto rosso) e allo sport (il calcio all’Olimpico di Roma).
      
   In conclusione, letto il romanzo, ognuno di noi si chiede di chi siamo lo “specchio”,  o qual è l’essere in cui noi stessi troviamo riflessa la nostra immagine.  E se per caso ci capita di vederci accanto o vicino il muso, le orecchie o la coda di un lupo, potremmo ritenerci fortunati; saremmo infatti, senza alcuna ombra di dubbio, consanguinei del cavaliere Aimone da Torrarmata, vassallo di re Alberico III da Bradabiano. E forse anche noi, come lui, abbiamo un segreto e una diversità da nascondere agli altri; e forse anche noi potremmo cominciare questo cammino di ricerca, alla fine del quale trovare la verità:

 L’altra natura che vive in noi,
non è una sorella malvagia,
ma ne è
unità
completamento
perfezione.

Cari saluti, con stima e simpatia
                                                                                                                                                                Nino Lo Conti

San Giovanni Bianco, 15 giugno 2011



*Nino Lo Conti insegna Lettere al Liceo Scientifico Turoldo a Zogno (BG). Appassionato e competente lettore, è anche autore di una interessante ricerca sugli scrittori bergamaschi dal 1700 a oggi e ha scritto, insieme a Ermanno Arrigoni, di Malato di montagna, in Quaderni Brembani 2006.





                        Nottetempo un cavaliere

                                                                                         di Pina Allegrini *



  La prima cosa che balza agli occhi, leggendo questo libro, è che le autrici si sono divertite e del loro divertimento hanno fatto partecipe il lettore, intrigandolo fin da subito dentro le avventure eroiche, cavalleresche, sentimentali, visionarie del cavalier Aimone di Torrarmata.

   Ma cominciamo dall’inizio, e cioè dal titolo: Bisclavret. Su di esso getta luce la citazione in esergo di un lai di Maria di Francia: il Lai di Bisclavret, appunto. Siamo nel XII secolo, in pieno Medioevo, e Maria è una delle rarissime donne scrittrici che sono riuscite a risalire la china della storia letteraria, la quale, come ben si sa, con le figure femminili è stata davvero molto avara.  Della sua produzione, che si ignora quanto sia stata copiosa, sono sopravvissuti una dozzina di lais, brevi racconti in versi, d’argomento amoroso e d’ambientazione fiabesca scritti con uno stile sobrio ed elegante. Tornando al titolo, dunque, se mi soffermo sul lai di Maria di Francia è perché ritengo la scelta molto interessante sotto diversi punti di vista: intanto è una donna che scrive, ed apre un libro scritto da donne, poi ci indica il significato del titolo (apprendiamo che bisclavret, in antico brettone, vuol dire lupo mannaro) e getta una qualche luce sull’argomento del romanzo, poi ci fa intuire per grandi tratti la panoramica temporale che gli fa da cornice al suo avvio, panoramica che andrà continuamente aggiornata o modificata dietro la spinta di suggestione di tempi ‘altri’ e storie ‘altre’ (come dicono le autrici stesse nel glossario elermico posto in appendice, la loro narrazione comincia laddove finisce quella di Maria di Francia). E infine ci dà conto, per allusione o per semplice associazione mentale, di un ‘genere’ e della sua nascita: il romanzo medievale, che si afferma insieme all’affermarsi degli idiomi romanzi come lingue letterarie. Esso riprende i modi del romanzo cortese, le narrazioni ispirate alla storia classica, le avventure, gli amori, gli onori e gli oneri dei cavalieri e delle loro mitiche quêtes, l’impianto spesso favolistico che non disdegna di strizzare l’occhio, per i personaggi minori, alla rusticana comicità dei fabliaux di altrettanto medievale memoria. Ingredienti, questi, che ritroviamo tutti nel nostro romanzo, il quale però, ben lungi dall’essere un romanzo ‘di genere’ risulta piuttosto appartenere, in maniera molto più stimolante, a quella categoria di romanzi ‘sui generis’ che rifiutano ogni etichetta e sfuggono a ogni catalogazione. Motivi di ascendenza classica (Flora e Fillide), suggestioni di ispirazione celtica (il vichingo Rune), spunti orientaleggianti (la matrigna di Aimone, Ling Yùn Yu, che gli insegna le arti marziali) o cortesi si intrecciano sapientemente e con sottile, divertita ironia convivono, animando una ricca trama di fatti e personaggi, non storici ma emblematici, molti dei quali, a cominciare dal protagonista, si fanno portatori e formatori di una nuova sensibilità proiettata verso un qualche futuro.

   Il cavalier Aimone di Torrarmata ci viene presentato, all’inizio, secondo gli schemi consueti della letteratura cavalleresca: possiede un castello, un feudo, una dama cui essere devoto. Ma fin da subito elementi ‘destrutturanti’ ci mettono sull’avviso che si tratta di un cavaliere fuori dal comune: per la modernità con cui amministra il suo feudo, per l’ambiguità di una natura doppia cui si fa cenno fin dall’inizio, per il fatto che la dama del suo cuore, Deliana, risulta essere la moglie da cui è stato fatto becco e abbandonato, e infine per il fatto di essere un visionario capace di viaggiare nel futuro. L’altera dama che lo ha tradito verrà sostituita, nel cuore di Aimone, dalla bella girovaga chiromante Raksha, la quale, dopo avergli letto la mano, lo incita a partire per la sua quête personale: la ricerca di se stesso. Cosa che il nostro cavaliere prontamente fa, dirigendosi verso nuove avventure in groppa al suo cavallo Excabalus, incontrando lungo la sua strada una galleria di personaggi svariati, quasi prototipi che attraversano varie culture e varie epoche letterarie: dal retorico e pletorico, spagnolissimo Iñigo de Fortaleza y Uceda, conte della Piana, marchese di Trescostas, alla vezzosa coppia di Fillide e Flora nel castello di Awrec, all’evanescente regina Ayla, herbaria che conosce i segreti delle pozioni e delle erbe medicinali, alla vecchia Adrastea, con le sue citazioni chiarificatrici da vocabolario sul lemma “borghese” e ironico-giocose da Cappuccetto Rosso, alla spettrale masnada di Hellequin, alla visione annichilente e ossessiva del Cacciatore vestito di pelli  con il quale Aimone finirà giocoforza per familiarizzarsi.  Tanti ancora sono i personaggi, ma il piacere della lettura è dato, oltre che dall’intreccio che regge la trama, soprattutto dall’intelligenza che governa una materia così abusata nel tempo, così stereotipata, la quale acquista una sua unitarietà a patto che si facciano riaffiorare le complesse stratificazioni linguistiche e i diversi livelli stilistici su cui si gioca la partita e che producono quegli effetti originali di vivace comicità, di brio, di leggerezza straniante grazie a un’indubbia perizia nel fare collegamenti inusitati, a un’arte  molto abile nei dialoghi, alle punte parodistiche di sicuro effetto, dovute spesso anche a citazioni di modi di dire e di versi italiani accostati ed esibiti come luoghi comuni. Non  per niente la ‘cerca’ di Aimone è guidata dalla parola, chiave aurea della soluzione del suo conflitto.

   Se i punti di partenza  sono l’atmosfera  e  i generi del romanzo medievale, il personaggio principale in qualche modo si stacca decisamente dall’epica cavalleresca e, facendo un balzo in avanti di alcuni secoli verso il Don Chisciotte, dà rilievo in senso psicologico e già borghese alla sua soggettività, contrapponendo la sua ‘rappresentazione’ del mondo alla quotidianità e al senso comune che lo circondano. La quête di Aimone è molto particolare: non è la ricerca del Santo Graal (nei confronti della quale ha punte di controcanto parodico tipico del burlesque courtois) ma la ricerca di se stesso, il tentativo di costruzione o meglio di riunificazione di un’identità ‘schizofrenica’, frammentata, in bilico fra natura umana e natura ferina. In questo senso, con un ulteriore balzo in avanti di parecchi secoli, arriviamo al bildungroman, il romanzo di formazione, e poi, ancora oltre, alla pirotecnia e alla ‘fantasmagoria linguistica’ de I fiori blu di Raymond Queneau, libro che riteniamo non estraneo all’ispirazione delle autrici.


* Pina Allegrini si occupa di scrittura, teatro, radiofonia, cinema. E’presente in antologie e riviste con opere di poesia, narrativa, critica, traduzioni dall’inglese, latino, greco, spagnolo.  Tra le molte pubblicazioni ricordiamo Grafica del silenzio, Noubs, 1998, Premio Penne per la poesia edita; Lo specchio nero, Orient Express, 2002; Madama Doré (con Tonia Giansante), Orient Express, 2003; Patmos, Noubs 2009.